Nina Cassian – Bach
La sospensione del tempo a causa della calura riporta alla memoria di Arufabetto molte poesie preferite. Quella che segue regge nella voce perfetta di Nina Cassian l’esattezza dell’infanzia e della musica, il concetto. Così, leggendola, avviene quell’ascolto dell’ascolto di Bach nella seconda parte della memoria. È la Muzica de dincolo, l’oltremusica che dà il titolo ad un’altra poesia in cui nei versi “Ero libera nell’aria, libera nell’acqua e nel fuoco” Arufabetto vede sintetizzata la vicenda biografica della grande poetessa. Ma forse ricordare non basta, bisogna rileggere tutto C’è modo e modo di sparire – Poesie 1945-2007 – a cura di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, Adelphi 2013.
Mi osserva da presunti ritratti, come un soffice organo i capelli gli rivestono la testa:
non so neanche se appartengano a lui questi cilindrici boccoli d’argento,
perché in fondo nessuno sa in quale luogo della terra si siano propagati la carne, i nervi e le ossa del
modesto organista, gli occhi ciechi del più chiaroveggente, e mentre incediamo sulla terra
germanica forse sotto i nostri passi c’è Bach e che lui ci sia è certo, ovunque l’uomo inizi a camminare.
Fin dove si stendono movimenti contrari la mia attenzione erra come su scale viventi,
dove sale e scende il pensiero, perché tra due suoni che si susseguono c’è un’alleanza fondamentale
come tra due molecole, di uranio, come tra la «e» e la «a» della severa parola «idea»; tra due suoni
c’è la lotta dei contrari corpo a corpo, punto contrappunto, balenare di voci senza requie, con
incidenze trionfali come una dichiarazione dei diritti dell’uomo, del diritto di rallegrarti
con lucidità, di soffrire con lucidità,
di rendere felicità e dolore gradini della conoscenza. Fin dove si stendono movimenti contrari le mie
mani si vengono incontro, si affrontano e dipartono, attente come strumenti di un chirurgo,
esplorano turbate un cervello umano, finché su tasti freddi come stalattiti non mi appare un
germanico inverno, filtro di tutte le stagioni, scintillante sintesi; case dalle superfici nitide, sbarrate
da travi color caffè come segni di addizione e moltiplicazione, un’intera matematica familiare, e
grondaie dalle cui labbra pendono lunghe sillabe di ghiaccio e l’ogiva del gelo e la guglia gotica
sulla quale canta il gallo segnavento con la sua cresta di latta. Disciplinato inverno! E in una casa
ventuno bambini con i capelli legati sulla nuca da un nastro che al mattino improvvisano
all’armonium, ventuno bambini che imparano a sottomettere ai canoni esatti della forma di fuga il
sorriso, l’impazienza, lo stupore scevro da equilibrio – e, regnante su quest’ordine di vita, un nume
tutelare, lui in persona, Bach, col grande volto e i capelli tubolari, Bach-padre, il padrone di casa.
Così, attraverso l’alito pungente della neve e il vapore intimo del caffellatte ho intravisto
un’immensa famiglia-orchestra, un milione di bambini cantare con voci fresche come neve novella
in un mondo pacificato
un grande coro di bambini presidiare in un futuro annunciato con certezza lo splendore e la purezza
della terra. Ho visto dunque un consolidato inverno musicale che rischiara l’animo torbido della
foresta tedesca e una casa dove la bellezza ha il gusto della vita domestica senza perdere in fascino
e vigore, una casa dove tutti gli orologi procedono senza errori per ordine invisibile del tempo e
dove il genio siede a tavola, spezza il pane in dodici parti e lo distribuisce all’umanità. Dodici suoni
risvegliati dalle loro minuscole culle d’avorio, dodici suoni che indicano la verità, come i dodici
rintocchi dell’orologio indicano mezzodì e mezzanotte; dodici suoni che lavorano come cazzuole e
martelli a una costruzione impeccabile, a un minuzioso edificio di stati d’animo sovrapposti, un
piano di quiete sopra uno di travaglio e sopra un altro ancora di certezza, perché il padre si è preso
cura dei figli, suoi eredi nei secoli, eredi innumeri di beni innumeri: dodici suoni. E le proposizioni
incise un tempo nel rame con la precisione delle linee di Dürer e il mistero della penombra di
Rembrandt passano oggi, naturalmente, a un’eternità di platino – perché ognuna di esse è una
sentenza contro la fosca Inquisizione, contro le oscure condanne, il corteggio delle maschere e gli
insetti caudati, una Laus rationis di grandioso e duttile rigore, e quando il padre piange e nelle
sarabande placide il suono giace avvolto in abbellimenti e gruppetti,
isolato come una lacrima in paramenti di brina, è perché molti dei suoi figli sono morti, perché,
nella Passione, il figlio suo è stato crocifisso, il figlio suo terrestre che la sera è tra i compagni,
a cena, che conosce il rosso canto del vino («… Bevetene e mangiatene tutti…»), la leggiadria e la
forza della donna, la devozione dell’amico («… Benché mi convenisse morir teco, non però ti
rinnegherò… »); la crudeltà dei mercenari quando fanno il proprio mestiere («… Poi, sputatogli addosso,
presero la canna e gliene percotevano il capo… »), l’uomo è cresciuto nella stima e nella
dignità nell’amore per i suoi simili – e per questo il genitore plenitudinario appartiene a coloro che
vogliono ristabilir la dignità e la coincidenza tra verità e bellezza, all’inesausto mondo dialettico,
che vuol conferire sensibilità alle cifre e orientare la speranza, a coloro che provano a rispondere
ogni giorno alle domande, punto contrappunto – e qui vorrei abbandonare la poesia giunta a bollore,
quando si fa musica e inchinarmi sotto l’arco voltaico del criterio contemporaneo a lui, al Grande
Laico, Johann Sebastian!
(c) All pictures: D.Abbruzzese
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