Intervista a cura di Francesca Silvestri
Di Eva, madre dello scrittore Italo Calvino, e dei suoi lunghi viaggi, soprattutto a Cuba e in Messico, raccontano le pagine autografe della monografia a lei dedicata da Elena Macellari nella collana di narrativa biografica “le farfalle”, fondata e diretta dal 2010 al 2018 da Clara Sereni per i tipi di ali&no editrice.
Parlano per Eva le intime riflessioni e gli scambi epistolari provenienti da carteggi e collezioni private, in un’epoca (l’inizio del Novecento) in cui rarissime sono le figure di donne italiane che si sono dedicate con tanta assiduità alla causa della ricerca e della divulgazione scientifica. Eva è stata una donna che dal giardino, e più complessivamente dalle consuetudini, uscì spesso, e per lidi lontani. Tessitrice di competenze attraverso gli Oceani, scienziata rigorosa quanto attenta agli aspetti sociali del proprio lavoro, si prendeva però il tempo per dire a una bambina: «Vieni, ti faccio vedere una chimera…».
Elena Macellari, agronoma e ricercatrice, è stata tra le prime autrici in Italia ad aver studiato e raccontato la vita di Eva Mameli Calvino e, nell’anno delle celebrazioni calviniane, riprendiamo il discorso su questa figura di donna forse troppo a lungo rimasta nell’ombra del marito e del figlio.
Chi era Eva Mameli Calvino?
Evelina Mameli era una botanica, una naturalista sarda, nata a Sassari nel 1886 da una famiglia della media borghesia, sicuramente fuori del comune rispetto alle ragazze del suo tempo che non studiavano ed erano spinte a sposarsi e fare figli. Sulle orme del fratello Efisio, che studiò chimica all’Università di Pavia, Evelina che tutti chiamavano Eva, si laurea in Scienze Naturali e nel 1915 ricopre come donna la prima cattedra di botanica in Italia. La sua vita però non sarà tra quattro mura universitarie ma al contrario itinerante tra trasferte all’estero, Messico, Cuba e Stati Uniti per poi rientrare in Italia a Cagliari, a Sanremo, inseparabile dal compagno e marito Mario Calvino agronomo ligure d’eccezione. Il figlio Italo ebbe un nome così nazionalista proprio perché nacque nel 1923 a Cuba quando Evelina e Mario Calvino stavano portando avanti un progetto agricolo per il Ministero degli Esteri Italiano, in un periodo in cui l’aspirazione autarchica fascista richiedeva esperti che studiassero e importassero nuove specie alimentari in Italia per sviluppare poi la coltivazione a livello industriale.
La coppia Mameli-Calvino, pur essendo studiosi e ricercatori dipendenti da una missione del Ministero italiano, condussero in modo indipendente un lavoro straordinario sul piano dello sviluppo agricolo dell’isola di Cuba dirigendo la Stazione Sperimentale per l’agricoltura a Santiago de Las Vegas, con attività di supporto ed educazione agricola dei campesinos che sarebbero diventati i nuovi tecnici locali e loro stessi promotori dello sviluppo socio-economico del paese. Eva Mameli dirigeva l’istituto di botanica, promuoveva l’educazione delle donne e dei bambini, per i quali creò un asilo, faceva ricerca sul campo e teneva relazioni internazionali con altri istituti di ricerca. Fu grazie a lei e a Mario Calvino se furono importate nuove varietà di soia in Italia, dopodiché infatti nacque Italsoia, varietà di mais e canna d zucchero e soprattutto frutta esotica come i famosi Avocado che approdarono in Liguria con il loro ritorno nel 1925 a Sanremo.
In questa città Evelina sarà subito al centro del progetto di fondazione della Stazione Sperimentale di Floricoltura che ebbe sede inizialmente proprio nella loro casa, Villa Meridiana, di cui Evelina era direttrice del laboratorio di ricerca genetica, mentre il marito Mario era alla guida della Stazione sempre con l’obiettivo di sviluppare specie da vivaio, sia per i giardini che per la produzione di specie da fiore reciso (come le rose, garofani, iris, gladioli, nerine, ecc.) e le più diverse specie da interno.
La sua concitata attività non le risparmiò una nuova trasferta in Sardegna per almeno tre anni quando diventò direttrice dell’Orto Botanico di Cagliari, al quale seppe dare un impulso innovativo per l’accrescimento delle collezioni di specie a fini di ricerca e studio a livello universitario e didattico. Alla nascita del secondo figlio Floriano nel 1927 decise di rinunciare al pendolarismo e rientrò definitivamente a Sanremo dove nel 1931 fondò, insieme al marito, la nota rivista Giardino Fiorito organo ufficiale dell’Associazione Italiana Amici dei Fiori sempre diretta da loro.
Questi anni la vedono al culmine delle sue attività naturalistiche che spaziavano dalla ricerca nel miglioramento genetico vegetale delle specie ornamentali, alla divulgazione con la rivista che lei stessa gestiva nei rapporti con i lettori, i collaboratori, i vivaisti e i collezionisti di piante del tempo. Non mancava di fare attività di pubblicazione di contributi scientifici su riviste e testi di livello internazionale che la resero nota per l’innovazione e lo studio di specie e varietà che fecero poi di Sanremo, dal 1925 agli anni Settanta, uno dei centri più rinomati per la produzione di piante ornamentali in coltura protetta. Le rose furono il fiore all’occhiello dei suoi studi sperimentali e alla stazione di Sanremo erano centinaia le specie selezionate e create dalla stessa Eva e da suoi collaboratori, che riscossero molto successo soprattutto attraverso premi per i migliori esemplari di rose da taglio, da cespuglio e rampicanti per giardini da collezione e per vivai.
La seconda guerra mondiale la vedrà risoluta e attiva nel contrastare le attività belliche come laica e pacifista, soprattutto durante la resistenza che vide implicati anche i figli Italo e Floriano, scampati alle fucilazioni durante le razzie del nemico nelle montagne dietro Sanremo dove si rifugiarono come partigiani.
La sua vita come moglie madre e scienziata non la escluse perfino dalla militanza ambientalista infatti è annoverata tra le prime donne protezioniste della natura in Italia. Si spese per il salvataggio della famosa Villa Hanbury nota nel mondo per il suo parco botanico a picco sul mare al confine tra Ventimiglia e la Francia.
Quando nel 1951 perse il compagno Mario Calvino, proseguì alla direzione della Stazione Sperimentale fino a quando per raggiunti limiti di età andò in pensione e continuò a dedicarsi alle attività di divulgazione e ricerca. Lasciò questo mondo nel 1978.
Quanto la figura di Eva torna nelle opere di Calvino e che rapporto aveva con il figlio?
Su questo aspetto è stato detto e scritto molto anche perché si è sempre cercato da parte di critici e studiosi dell’opera calviniana di capire le motivazioni di una evidente conflittualità generazionale e caratteriale tra Italo e i suoi “impegnativi” genitori. Molti i riferimenti nelle sue opere alla vita condotta nella famosa casa delle due culture, Villa Meridiana, dalle reminiscenze botaniche – “nomenclature babeliche” – alle idiosincrasie con il mondo naturale, che ostentava quasi a difesa di una appartenenza a un mondo diverso, quello della vita urbana fatta di luci, città, cinema, teatri e letteratura. Tutto questo è sempre stato interpretato per molto tempo in termini di conflitto madre-figlio, recenti studi su Italo hanno invece riabilitato quei rapporti, vedi Laura Guglielmi in particolare il suo ultimo contributo (Italo Calvino e Sanremo alla ricerca di una città scomparsa, Il cammino Editore 2023) mentre questa “proverbiale” durezza e severità materna è smentita dalle poche quanto preziose testimonianze scritte di Evelina, lettere inedite in particolare, che riportai in calce del mio libro, in cui si esprime con grande affetto e commozione nei confronti dei figli e dei tre amati nipoti.
Sicuramente i tempi in cui viveva Eva Mameli, a cavallo tra due secoli, non erano quelli che consentivano a una donna di potersi affrancare dalla famiglia di origine attraverso gli studi e tanto meno un lavoro indipendente e remunerato. Se Eva non fosse stata una personalità forte e decisa come era lei, non avrebbe potuto raggiungere quei ruoli senza dover necessariamente rinunciare agli affetti familiari: al ruolo di moglie e madre.
Italo parla, non c’è dubbio, in modo poco generoso della madre in alcuni passi dei suoi rari testamenti emotivi, quando la definisce dura, severa, austera benché poi altrove la chiamerà “la maga buona degli iris”, quando si dedicherà a racconti interamente dedicati alla natura e ai suoi misteri, come Un pomeriggio Adamo o alla critica della distruzione del paesaggio ne La speculazione edilizia, in cui compare sotto altre vesti la madre che chiede al figlio Quinto dove potrà coltivare le sue Calceolarie, se venderà l’ultimo terreno per darlo in mano agli impresari edili.
Quanto può essere attuale l’opera di Eva e di altre esploratrici vissute tra Ottocento e Novecento e che influsso possono aver avuto nella letteratura di viaggio?
Sicuramente l’opera di Eva Mameli deve essere annoverata e ricordata nel mondo scientifico nell’ambito della esplorazione botanica proprio perché il suo studio, che è partito dalla flora sarda quando era ancora studentessa a Pavia, si è protratto durante tutta la sua esistenza, non solo per le sue trasferte a Cuba dove ha indagato sulla flora locale a tutto tondo, ma anche per la sperimentazione durante la permanenza a Cagliari come direttrice dell’Orto botanico, e poi nella Stazione Sperimentale di Floricoltura di Sanremo. Risultano ancora attuali i suoi studi sull’acclimatazione delle piante esotiche, sulla selezione delle rose per individuare, da quelle più selvatiche, le caratteristiche per la resistenza alle malattie, alla siccità, per rifiorenza, profumo e durabilità come fiore reciso, solo per fare uno dei tanti esempi delle sue ricerche nell’ambito giardinistico e botanico.
Come donna dedita al viaggio si può certamente considerare una pioniera per il suo tempo, soprattutto a livello italiano. In Inghilterra e nel nord d’Europa era già in atto un cambiamento epocale per la donna che già viaggiava, studiava e si manteneva con il proprio lavoro pur anche lì con grandi difficoltà, come denunciavano Mary Wollstonecraft e poi Virginia Woolf.
Spostarsi a fine Ottocento da un’isola come la Sardegna per andare a studiare, o partecipare a dei convegni a Londra ancora giovanissima, sposarsi in Messico per poi lavorare come direttrice, in un istituto di ricerca a Cuba per il Ministero degli Esteri, era cosa rarissima e ahimè poco accettata a livello di convenzioni sia familiari che di genere. Al suo tempo le bambine che portavano avanti gli studi oltre alle scuole elementari erano esigue e se quelle di un certo livello sociale ed economico lo facevano, era solo per un piacere personale e di status quo.
Eva Mameli è l’emblema di un processo di affrancamento della donna che ha varcato quel limite apparentemente invalicabile, a causa dei condizionamenti fortemente influenzati dal patriarcato e dal sessismo che dall’Ottocento fino alla metà del Novecento hanno relegato la donna in ruoli precostituiti che non le si confacevano.
Purtroppo Eva, nonostante la sua qualità di scrittrice impeccabile e di eccellente livello stilistico, il figlio sicuramente ha appreso e ereditato queste capacità innate, non ci ha lasciato né una sua biografia né testimonianze come diari di viaggio o annotazioni sui suoi innumerevoli spostamenti per terra e per mare, centinaia invece le pubblicazioni scientifiche e gli studi stampati in diverse lingue; nonostante questo la sua storia e la sua chiara fama come ricercatrice, divulgatrice e innovatrice nei ruoli di madre, moglie e donna in genere, ha senza dubbio ispirato studentesse, lettrici, intellettuali, studiose e viaggiatrici botaniche che a lei si sono ispirate, prendendo esempio dal suo coraggio, dalla sua determinazione e aspirazione alla perfezione in tutte le cose che faceva con gioia e passione.
Badia Tedalda – Loc. Montelabreve, 5 dicembre 2023
Eva Mameli Calvino, ali&no editrice 2010.
Fotografie per gentile concessione dell’editore e dell’autrice.
Elena Macellari, nata in Umbria, vive e lavora in Toscana. È agronoma con un dottorato in assetto del territorio agricolo. I suoi ambiti di ricerca e lavoro sono i giardini, l’agricoltura e il territorio. Con ali&no editrice ha pubblicato Giardinieri ed esposizioni botaniche in Italia (1800-1915) nel 2005, Eva Mameli Calvino nel 2010 e Custodi della biodiversità agricola nel 2021. I suoi ultimi contributi Le signore della botanica (Aboca Edizioni, 2017), L’orto botanico di Padova. Atlante nel 2020, L’orto botanico in quattro stagioni. Inverno nel 2021 per Nicla Edizioni.
Cinquanta anni dopo la sua scomparsa, la vita e l’opera di Ingeborg Bachmann continuano ad assomigliare ad un panorama archeologico. La presenza dei fantasmi, di piante e animali inselvatichiti tra le rovine è più reale delle figure oggettive che tentano senza scopo di ingessare il presente a se stesso.
In cinquanta anni, mentre ci stiamo avvicinando al centenario della sua nascita, via via si sono svelati sempre più dettagli, carte provenienti dal lascito, nuove traduzioni, scambi epistolari, alcuni fondamentali, come quello con Paul Celan, nuove biografie che tentano di afferrare l’arcano rappresentato da questa persona che scriveva.
L’opera della Bachmann, assurta a ruolo di classico mentre era già in vita, non necessitava certo di richiami all’interesse. Il lavoro critico è stato costante. Lo stesso l’attenzione accademica. Il ritmo di queste rivelazioni preziose è stato compiuto certo sulla base della voracità dei curiosi che volevano frugare, innamorati della sua opera, nei dettagli di una vita novecentesca. Assolutamente non nel senso di volerla soddisfare, anzi, di volerla tenere a bada in qualche maniera, quasi crudele.
Ricordo bene che quando iniziai a leggere le sue opere, l’immagine della Bachmann era di nuovo adagiata in quella della scrittrice che nella lotta si era persa nel ruolo di vittima.
E certo, sulla giovane persona che ero, questo aveva lasciato un’impronta decisiva, utile come chiave di lettura. Non parlo di me in prima persona per parlare di me, una individualità indecifrabile come un’altra, ma perché penso che la lettura di Ingeborg Bachmann abbia prima di tutto a che fare con il rapporto con l’Io.
Ho avuto la fortuna di conoscere le due storiche curatrici dell’opera, Inge von Weidenbaum e Christine Koschel, una sera a Pistoia. Mi pare che il primo libro che mi era capitato tra le mani fosse Letteratura come utopia. Lo lessi distrattamente durante una noiosa estate, ma un capitolo mi era rimasto particolarmente impresso, quello sull’Io appunto. In quel libro, prima di frequentare l’università, scoprii il significato esteso dell’Io in quella fase del novecento. Già dalle prime battute ad esso dedicate nelle lezioni francofortesi di Ingeborg Bachmann: “Signore e Signori, vorrei parlare dell’Io, della sua presenza nella letteratura e quindi delle faccende dell’uomo nella letteratura, nella misura in cui l’uomo si rivela tramite un Io, o tramite il proprio Io, oppure si cela dietro l’Io”
mi parve subito evidente che Io era un’istanza astratta, logica e matematica. Non sapevo niente di Ingeborg Bachmann, ma questa mia percezione si rivelò poi, quando studiai a fondo la sua biografia vedendo quale era stato il suo percorso di studi. La tentazione era pensare che Io corrispondesse allo zero dei matematici. Perché no? Del resto, in tutto il gioco intorno all’Ego e alla sua negazione si era svolto il grande assalto della lingua contro se stessa nella letteratura del secolo scorso. L’Ego era avvolto dalle fiamme, ma continuava a restare Io.L’Io, reso tabù da Proust, circostanziato fino all’estremo limite pensabile da L’innominabile di Samuel Beckett.
Di quella lontana sera a Pistoia il ricordo riporta le osservazioni delle due relatrici sulla difficile presenza di Io in Malina, sulla discrezione che avvolgeva la persona Bachmann. La sua capacità di comprendere a fondo il pensiero dell’interlocutore, già dalle prime parole pronunciate. Il rapporto con Max Frisch.
Il gruppo di giovani di cui facevo parte pose le proprie domande solo a fine serata. Troppa timidezza. Ricordo il disappunto di Inge von Weidenbaum per la versione cinematografica di Malina, la cui sceneggiatura era stata scritta da Elfriede Jelinek. La simpatia di Inge von Weidenbaum mi spinse a farle una domanda molto sciocca: che sigarette fumava Ingeborg Bachmann? Gitanes. Mi disse che non era una domanda sciocca, e per consolarmi mi raccontò che la Bachmann aveva voluto che la copertina di Simultan (la raccolta di racconti che in italiano porta il titolo Tre sentieri per il lago) edito per i tipi di Piper Verlag, fosse del colore del pacchetto delle Gitanes. Dopo il giusto ossequio per le due studiose, e amiche di Ingeborg, ai giovani fanatici del gruppo il giorno dopo inevitabilmente sorse il bisogno di procurarsi il VHS dell’esecrato film Malina di Werner Schroeter. Comparve alla svelta, sorto dalla bolgia incredibile di film e di dischi che erano reperibili a Firenze in quegli anni. E manco a dirlo il film ci estasiò per la sua audacia onirica. Per noi diventò emblematica la scena di apertura, spostata rispetto alla seconda parte del libro, con la figura del Padre, dalla cui bocca esce una mosca, prima di proferire parola. Quale miglior segno del rapporto col linguaggio oppressivo e mortale.
La prima battuta del Padre, il Terzo Uomo, era diventato un leitmotiv “Ti reputi migliore degli altri? E cosa avresti di tanto speciale?”. La scena particolarmente incriminata da Inge von Weidenbaum, quella in cui Io si avventura in un cantiere, si rivelò essere una raffinata citazione di The Fountainhead di King Vidor.
Elfriede Jelinek aveva intercettato, senza esserle particolarmente empatica dal punto di vista letterario, e senza nemmeno insistervi troppo, un certo aspetto limite della sensualità della Bachmann. E il suo sapersi spingere oltre il consentito, là dove le leggi potrebbero cadere.
Anche questo è permesso, avvelenare, io
io leggo il codice penale e non trovo paragrafi che lo vietino.
Chi è appassionato di un autore conosce bene quel senso di divieto inevitabile quando si avvicina un anniversario, sia esso legato a una data della vita o alla ricorrenza dell’uscita di un libro chiave, e che riguarda il rifiuto di rileggere, di controllare le citazioni. Il vizio di affidarsi alla memoria, nel suo indistricabile doppio che riguarda la parte emotiva e quella razionale. In questa specie di tabù mascherato da santa pigrizia risiede il lato osmotico tra lettore e scrittore amato. Ce lo consentiamo, perché chi ha scritto al posto nostro le frasi che volevamo dire o scrivere ci ha decifrati. In qualche modo dobbiamo compensare questo debito con quello che è, appunto, un vizio.
In un’intervista, mi pare sia nella raccolta In cerca di frasi vere curata da Weidenbaum e Koschel, con l’introduzione di Giorgio Agamben, diceva che nonostante l’italiano fosse una lingua che l’aveva adottata e che padroneggiava benissimo, doveva ancora tradurre nella sua testa i numeri dal tedesco, in cui rispetto alla nostra lingua si pronunciano alla rovescia.
Questo mi richiama il fatto che nella mia, di teste, c’è una divisione tra i versi di Ingeborg Bachmann che ricordo, alcuni in tedesco, altri inevitabilmente in italiano. Quelli contenuti in Invocazione all’Orsa Maggiore sono belli al punto di sconfinare nel sacro, ed è dunque inevitabile che restino impressi nella lingua in cui vennero scritti. Non è possibile fare diversamente:
Größer Bär, komm herab zottige Nacht
Sopraggiungono poi, è più che noto, i momenti in cui ci si dimentica a fasi alterne degli autori che ci hanno insegnato tanto. Le tracce restano in profondità, perché nell’arbitrio di dire che la notte in cui compare l’ Orsa Maggiore è arruffata, il fatto che la costellazione riassuma la notte, si riconosce quella che un tempo si chiamava classicità. Ne discende, come per la notte, un’ulteriore conferma anche per la memoria.
I testi di Ingeborg Bachmann, soprattutto nella prima parte della sua carriera, sono stati testi per la radio, un’occasione ricorrente per gli autori germanofoni, ma che sembrano segnarla in modo decisivo. È pur vero che nel dopoguerra questa forma di espressione pagava un certo atteggiamento misterioso della politica culturale nazista. I tedeschi avevano sempre amato la radio, ma nelle fasi acute della guerra la nostalgia che poteva derivare dall’ascolto di parole invisibili era vista come un pericolo. E in questo pericolo, il valore di fronte all’amico, invece che di fronte al nemico, la Bachmann si era gettata con tutta la sua intelligenza.
Allora, così giovane, non avevo mai ascoltato uno dei suoi radiodrammi. Molti di noi fanatici di Ingeborg non lo avevamo fatto. Era una stramba esperienza leggere qualcosa che era stato concepito solo per l’ascolto radiofonico. Soprattutto risultava molto utile per comprendere, addirittura forse più della poesia, il modo di comporre di Ingeborg Bachmann. Mi riferisco in particolare ai radiodrammi divulgativi, come quello che ha al centro la figura di Simone Weil, scritto a metà degli anni cinquanta. Come sempre con i grandi, una lettura diventava il veicolo privilegiato verso altre letture, capaci di intessere una sorta di destino.
Mi trovo a lavorare con due persone che sono legate a Ingeborg Bachmann. Francesca Silvestri è un’esperta e studiosa di Carlo Emilio Gadda, in specie de La cognizione del dolore, un libro fondamentale per Ingeborg. Tutti ricordiamo quando l’Io bambina di Malina ha, al ritorno da scuola, la terribile, banale esperienza della prima cognizione del dolore. Francesca è inoltre molto addentro, per passione, alla narrazione delle biografie delle scrittrici, essendo anche lei una scrittrice di livello. Nonché lettrice attenta di poesia ed esperta di radio, di cui conosce il fondamentale rapporto con la letteratura.
Daniel Abbruzzese, germanista, è stato fonte inesauribile di ragguagli sui libri critici da leggere riguardanti la scrittrice austriaca e mi ha fatto apprezzare le poesie di “Non conosco mondo migliore” edite in Italia da Guanda. Lui, che vive a Berlino e la conosce a fondo, mi ha accompagnato a visitare tutti i luoghi dove era impossibile negare il senso di perturbamento, di luogo eventuale, percepito da Ingeborg Bachmann. La capacità di Daniel Abbruzzese di sentire il turbamento, l’eventualità, minacciosa e disgustosa allo stesso tempo, di Berlino, è visibile nelle sue foto e in molti dei suoi bellissimi quadri. Ha inoltre sopportato il mio Io ventenne, a fine anni novanta, che a Vienna doveva andare tutte le benedette sere sulla Ungargasse fino al numero 9, il civico dove vive Ivan, l’amore di Io in Malina.
Ricordo benissimo il senso di paura e di disagio che provai leggendo Il libro del deserto quando uscì in Italia per l’editore Cronopio. Avevo già letto Il caso Franza ovviamente, ma Il libro del deserto non riuscivo a considerarlo parte dell’enorme cantiere di Cause di Morte. Mi sembrava qualcosa di completamente diverso e di inquietante, esattamente il libro scritto da una persona che non esiste più. Pervenuto da quella forma aerea che aveva avuto la scrittura di Ingeborg Bachmann, concretatasi nei suoi eccezionali radiodrammi.
La sua voce l’avevo conosciuta presto, grazie ad un’audiocassetta che ascoltavo in continuazione mentre facevo la spola tra Pistoia e Bologna guidando senza patente una R4.
Quando poi la vidi finalmente in un video della ORF in cui la si vedeva girare per Roma:
Un postino : È Carosello?
Ingeborg Bachmann : No, è una cosa un po’ più seria
non provai alcuna sorpresa. La sua persona era perfettamente riassunta nella voce. Forse dava l’impressione, come ricorda Heinrich Böll nel suo necrologio, di essere sempre un attimo prima del crollo o della crisi. Ma ci vuole una forza immensa per rimanere sull’orlo del precipizio e voler sentire fino in fondo tutta la vertigine. E ho sempre creduto che in quella persona che fu Ingeborg Bachmann ci fosse una forza occulta e strategica al tempo stesso. Una grande capacità di usare i lembi d’ombra della bugia.
Ci avevo pensato chiaramente una delle tante volte che mi ero trovato al numero 66 di Via Giulia, a Roma, Palazzo Sacchetti, la sua ultima residenza. Non era certo accaduto lì, ma continuavo a credere che la frase assoluta “Vienna tace”, che chiude il primo grande capitolo di Malina, fosse stata scritta in quel posto. Nessuna altra frase poteva essere l’ultima, prima che si aprisse il grande libro dei sogni della parte centrale del romanzo, libro dei sogni che è, va da sé, il libro dei morti.
Ogni caspita di volta che mi affacciavo, da solo o in compagnia, sull’androne di Via Giulia 66, c’era sempre il classico personaggio romano, che si lamentava del via vai e dei pellegrinaggi. Era una conferma che Ingeborg Bachmann aveva deciso di andarsene da Roma.
Non credo fosse solo come dice in un’intervista, per il fatto che era iniziato il terrore e che anche a Roma tutto stava diventando brutto. Intuitivamente direi che, in un pessimo stato di salute, si era cacciata in qualcosa che non riusciva più a gestire. Il soggiorno a Malta nell’ultima estate della sua vita potrebbe essere una spiegazione in questo senso. È pettegolezzo di bassa riga: quante pasticche assumeva ogni giorno, quanto beveva, che vita erotica sconclusionata aveva. A sapere tutto, nel dettaglio, il mistero rimarrebbe intatto.
Non ho mai pensato, mentre andavo lì davanti al 66 di Via Giulia, che era accaduta lì, la cosa con il fuoco. Non è stato quello il culmine della sua vita voglio pensare, con l’alterna simpatia che provo verso uno dei miei miti.
Uno dei ricordi più belli e delicati che ho letto su di lei era un pezzo di Fleur Jaeggy uscito per la rivista Du, che aveva dedicato alla Bachmann un numero speciale. Non ho riletto nemmeno quello. Mi affido alla memoria che può aver composto il suo mosaico sbagliato. Jaeggy raccontava della vacanza che lei e Calasso avevano fatto con la Bachmann in Versilia, dalle parti di Forte dei Marmi. Come aiuto in casa avevano due signore e una di loro, testimone di Geova, aveva parlato della Bachmann alla Sala del Regno. Aveva raccontato delle forcine dorate che le cadevano dai capelli, e una se l’era presa. Del suo odore di Acqua di Rose, tipico di tante donne italiane.
La grande frattura in quello che sento per Ingeborg Bachmann era comunque avvenuta, come dicevo prima, con Il libro del deserto. A partire da quella lettura, non so perché, e nemmeno voglio saperlo, il mio atteggiamento di lettore era cambiato radicalmente, come se non riuscissi più a far coincidere Ingeborg Bachmann con l’Io di Malina. Questo cambiamento mi aveva reso cosciente che l’individualità sdoppiata in quel libro significava che l’ autrice era anche Malina. O soprattutto Malina.
Nessuno ha saputo al pari di lei rappresentare il dopo del nazismo. Il rientrare di quell’onda, non risolta, all’interno dei rapporti personali, la miseria umana del dottore nazista ne Il caso Franza, tutto quanto riassunto nel disvelamento della figura del Padre in Malina, quando si spoglia delle sue insegne di morte: E? E? E?
Era inevitabile considerare questo anniversario nella parentesi avvenuta tra il terribile incidente e la sua orribile, troppo ingiusta, fine. Ero a Roma in quei giorni ma ho scacciato con fastidio l’idea di pensarci. Era un altro Io quello che aveva amato Ingeborg Bachmann a Roma.
Così, appena me ne sono allontanato, mi è presa una grande nostalgia di tutto quello che Ingeborg Bachmann aveva rappresentato e continua a rappresentare per me. Senza di lei avrei letto le poesie di Celan in un altro modo, e per quanto sia ancora ardua la comprensione di molte di esse, mi sarebbe mancata una via d’accesso privilegiata. Non avrei amato tanto Uwe Johnson, che fu suo ospite a Roma e che scrisse un libro apposta dopo la sua morte, Un viaggio a Klagenfurt, dove tutto il dolore dell’amico è celato dietro la sobria maschera di puntigliosi dettagli.
Forse avrei amato in maniera differente, mi dico oggi, se non avessi percepito che in lei intelligenza e sensualità non erano in conflitto. Mi sarebbe mancata la percezione dell’archetipo dell’Italia degli anni sessanta senza leggere il racconto Simultaneo. Più l’ovvio resto.
Gratitudine e dipendenza vanno sempre riallineate, quindi da qualche parte dovevo andare, per pensare a lei in modo nuovo. Sfruttando il caso del soggiorno in Italia un giorno che ero da quelle parti ho deciso di andare a Luni. Di sicuro anche lei c’era stata e se invece no, è chiaro che le sarebbe piaciuta quella città romana che secondo una delle leggende era stata distrutta per una storia d’amore, per di più con una morte inscenata di mezzo.
Le sarebbe piaciuto che si potesse accedere all’area archeologica passando da una piazzola posta sull’autostrada, come se si potesse abbandonare la macchina e sparire. Nell’aura azzurrina derivante dalle vicine cave di marmo il caldo era insopportabile. Chi è in attesa di vedere qualche meraviglia non ci vada, perché la città assomiglia davvero alla luna, va pensata o guardata da lontano. Invece che a Ingeborg a causa del caldo mi veniva in mente Rutilio Namaziano. C’era un gruppo di studiosi, mi pare a Siena, che se ne occupava. Forse si chiamava Le mille bolle blu. A Roma, al Tufello, avevo visto un negozio di piante da giardino, quelle che vengono costrette ad assumere forma di animali o di disegni e che vengono vendute in vaso. Ce n’era una che aveva assunto la forma: CIAO. Mi era venuto da ridere.
E poi mentre camminavo per arrivare alle rovine ho pensato che Rutilio era davvero utile. Con la storia del 110 la distruzione di tanti edifici in tutti quei paesi che avevo attraversato, e soprattutto a Bagni di Lucca, mi era parsa un segno meraviglioso, come se la storia avesse voluto di nuovo colpire l’Italia con quel numero che sembrava il numero di un’emergenza. Ingeborg avrebbe capito al volo.
Non ho mai conosciuto dei deserti fuori dall’Europa. A lei si deve, come è noto, il geniale parallelo tra il deserto egiziano e quello di Berlino, che riposa sulla sabbia del Brandeburgo. Ad inizio estate appunto, a Frankfurt Oder mi ero trovato con un ricercatore che voleva scrivere un libro sull’ultimo viaggio di Ingeborg Bachmann, quello fatto in Polonia nel maggio del 1973. Le scarpe d’oro dovrebbe intitolarsi. Il titolo deriva dal fatto che quando Ingeborg Bachmann era arrivata in Polonia la sua valigia era andata persa e aveva dovuto dichiararne il contenuto. Aveva elencato tutti gli oggetti e alla fine aveva detto: e un paio di scarpe d’oro. Si sentiva slava, era il suo vero modo di appartenere a quella istituzione inesistente che chiamava Casa D’Austria.
Davanti alla biglietteria per entrare nell’area archeologica di Luni c’era un gatto. Ero stato trenta anni esatti prima a Luni. Ma tutta l’area è invasa dai gatti, tanto che sul bancone della biglietteria c’è una scatolina per le offerte per i gatti di Luni. Sono i figli di trenta anni di gatti. Un potenziamento incredibile. Sono le stesse famiglie di allora? Questi gatti sono stanziali? Uno di loro miagolava disperato, con il tono teatrale e poco credibile, tipico dei gatti assistiti, senza farsi vedere.
Nell’area adiacente al piccolo museo sotto un pergolato dei giovani archeologi stavano facendo la siesta. E Franza, quando era entrata nella sala delle mummie, in un museo in Egitto, aveva detto quello che bisognava dire. Si era messa a vomitare, vedendo quelle persone che erano state strappate alle loro tombe ed esposte senza nessun senso di decenza. Vi siete ben rappresentati, diceva, per il vostro viaggio nell’ oltretomba. Aggiungeva che nelle case degli archeologi si sentiva già puzzo di bruciato.
Sono andato fino al tempio della Luna. E poi al teatro. Ho sempre ammirato ma poco amato quello che Ingeborg Bachmann ha scritto su Musil, suo conterraneo. Lei aveva iniziato a studiarlo prestissimo. La via di lettura nell’universo di Musil ha per me tutta un’altra direzione. Non posso che inchinarmi però al fatto che abbia prestato particolare attenzione al poema su Iside e Osiride. Quella mancata congiunzione regge tutto il rapporto tra fratello e sorella ne Il caso Franza. La Tenebra Egizia è perfetta. A Luni ho sentito di nuovo, chiaro e forte il NO che Franza oppone alla morte. E questo No mi è parso una luna.
So come sarà a breve il mio rapporto con lei. Passerà ancora qualche anno prima che abbia di nuovo l’istinto di leggere Malina. Nel frattempo attingerò alle pagine di Cause di morte, ben sapendo che il rapporto con Ingeborg Bachmann non sarà mai chiuso. Il fatto che non si trovino più Gitanes a giro ci unisce.
In ottobre è finalmente uscito in Germania il film di Margarethe von Trotta dedicato alla Bachmann: Reise in die Wüste (Viaggio nel deserto) incentrato sul complicato rapporto con Max Frisch e sul viaggio che Ingeborg Bachmann fece in Egitto assieme al giovane scrittore Adolf Opel. Due interessanti stroncature testimoniano dello sfortunato film. Una, di Birgit Schmid, uscita sulla Neue Zürcher Zeitung, riporta un penoso passo dei dialoghi “Che cosa sa di me?” chiede Max Frisch alla Bachmann. “Che vuole essere salvato”, risponde lei. Difficile non apprezzare la chiosa di Birgit Schmid “suona come Rosamunde Pilcher per un pubblico intellettuale”.
Dopo la fine del rapporto con Frisch la Bachmann se ne va in Egitto. Qui c’è una scena veramente spassosa in cui, proprio durante un tramonto, Adolf Opel si mette a recitare la di lei poesia An die Sonne (Al sole). Sappiamo, anche da glorie nazionali italiane, che la poesia al cinema è un campo minato. Ma qui siamo andati un po’ oltre la linea.
L’altra stroncatura, ancora più cattivella, se possibile, è uscita per Die Welt, a firma di Iris Radish. Già dal titolo “Clichés ripuliti” dice, e neanche tanto tra le righe, che il film è stata una povera operazione per rappresentare la Bachmann come vittima totale di Frisch. Von Trotta, che si è accaparrata il monopolio di rappresentare tutte le icone femminili della cultura tedesca, da anni si dedica con passione a gettare nelle sale delle salve di kitsch. Forse pura perversione intellettuale. Che ahimè va a discapito, in questo caso particolare, di un’attrice bravissima come Vicky Krieps, che interpreta il ruolo della Bachmann.
Quello che irrita però è l’ossessione, non solo nel caso del film della Trotta, che viene riservata a Max Frisch. È pur vero che uno dei bestsellers dell’anno in Germania è stato lo scambio epistolare tra Bachmann e Frisch. Un caso editoriale che senza ombre di equivoco ribalta il ruolo di vittima sacrificale della Bachmann e che mostra la sua esistenza sotto il giusto spettro di osservazione. Forse Trotta aveva intuito di aver esagerato, come dimostra la sua protesta di non aver avuto accesso all’epistolario prima della sua pubblicazione. Ne aveva davvero bisogno? Non erano già tutte in linea le bellissime contraddizioni di una scrittrice che ha cavalcato tutte le esperienze intellettuali più alte del secondo dopoguerra, muovendosi con l’acume di una punta di diamante dalla filosofia, al giornalismo, alla poesia? Non è una domanda retorica. Forse è ancora impossibile, tanto più nella fase culturale in cui ci troviamo, abbracciare la forza di Ingeborg Bachmann.
Quest’anno è uscito anche il libro di suo fratello, Heinz Bachmann, che la rammenta attraverso ricordi familiari. Pure in questo caso, mi riferisco ad un’intervista in particolare, su poche domande la maggior parte riguardavano il suo rapporto con Max Frisch. Dovrebbe essere scritto da qualche parte, a grandi lettere, che lei poteva esistere benissimo da sola. Che l’ombra cui era andata incontro era qualcosa d’altro, non riconducibile solo ad una storia d’amore o alla sua esistenza. Il fuoco, una metafora che è diventata un’orribile realtà per lei, ci fa ancora paura. Il fiasco morale del film della Trotta, tragica ironia che un uomo con questo cognome sia nel racconto più importante della raccolta Simultan, va forse letto come una vendetta di Ingeborg Bachmann.
Ma venendo via da Luni/Luna/Lunae, senza essere riuscito a centrare con il cuore il mio pensiero su di lei, per renderle omaggio come si merita, fallendo dunque in questo proposito, mi erano venute in mente altre cose. Pensavo a Ondina se ne va, il racconto che chiude la raccolta de Il trentesimo anno, per me ora legato ai noti versi di Sylvia Plath:
Herr Dio, Herr Lucifero,/Attento,/Attento./ Dalla cenere io rinvengo/ Con le mie rosse chiome/ E mangio uomini come aria di vento.
Ebbene sì, c’è in Ingeborg Bachmann qualcosa di stregonesco, che inclinerebbe ad avere pensieri e fantasie irrispettosi sull’elemento del fuoco, che lei aveva visto alla fine di ogni mercato a Campo de’ Fiori come se Giordano Bruno fosse bruciato ogni giorno. Eppure lei stessa era stata fin troppo irrispettosa, spiegandoci che qui non si muore, come comunemente si crede, ma si viene assassinati. Questa è stata la sua grande scoperta. Altri misteri, e lo sono davvero, si sono rivelati tali. La trepida curiosità vuole che ci siano ancora delle carte di Ingeborg Bachmann che non sono venute alla luce. E non è forse strano, tornando per un’ultima volta a Max Frisch, come ha fatto notare suo fratello Heinz in un’intervista: “Ho notato solo una cosa quando ho visto le lettere di Frisch a mia sorella e le ho consegnate alla Biblioteca Nazionale con un vincolo di 50 anni. Gran parte delle lettere non sono originali. Ho trovato la cosa alquanto bizzarra. Molte lettere sono state distrutte. Solo otto delle lettere di Frisch presenti nel fondo sono originali. Il resto sono copie. Mi sono chiesto: chi fa questo?” Misteri di quella Vienna che tace.
Quello che mi dispiace, come racconta Heinz Bachmann, è che non sia riuscita a fare per la rivista Stern un viaggio in auto in Senegal, Mauritania e Mali. Chissà cosa avrebbe scritto. Ora ero Io, che avevo fatto il percorso indietro per ritornare alla piazzola di sosta sull’autostrada, che dovevo recuperare l’auto. Lei amava guidare e sapeva di guidare bene. Diceva che non le importava se qualcuno le avesse detto che le sue poesie non erano belle, ma che le sarebbe seccato molto se qualcuno le avesse detto che guidava male. Dovevo andare per forza in direzione Liguria per trovare un’uscita per tornare indietro verso Bagni di Lucca. Allora, dopo aver trovato il modo di tornare indietro, perché non andare verso Poveromo, dove lei aveva trascorso una vacanza con Fleur Jaeggy e Roberto Calasso? Ho detto a voce alta in macchina un’altra poesia che mi ricordavo, non penso che nessuno mi abbia visto, non c’era traffico, e se mi ha visto avrà pensato che parlassi al viva voce. Strano anche in questo caso, il titolo lo ricordo in tedesco Verzicht (Rinuncia) ma i versi solo in italiano:
La mia pelle porta ancora un respiro,
la mia mano tiene ancora il suo sesso
la mia bocca si incurva ancora sopra la mezzanotte
sei ancora tu il mio desiderio
Cos’è il mio desiderio, se non tu!
Ah, com’è bello che nessuno sappia,
se vuoi rendermi felice,
ricomincia daccapo,
Mi riavvicinerò a lei leggendo i libretti d’opera che aveva scritto per Hans Werner Henze. È probabilmente il modo più semplice per decifrare la nuova immagine che di lei è sorta dentro di me.
Nel dedalo delle strade di Poveromo è facile pensare a quando il posto, come è noto, dava rifugio a gente considerata equivoca nel periodo più sinistro e equivoco della prima parte del Novecento. Anche Walter Benjamin. La natura del luogo si è però rifatta di tutte queste glorie. Case molto ben curate, case molto ben abbandonate, di nuovo in rovina, senza che ci sia alcun Rutilio a raccontare ritorni che non avverranno. Certi parchi aspettano dei delitti, come sempre accade nei luoghi di vacanza storici, vicino al mare. Come diceva Musil in Iside e Osiride:
Von der Wüste blies der rote Wind,
Und die Küsten leer von Segeln sind.
Ho girato quasi un’ora in quel labirinto, per ritrovare la casa dove poteva aver soggiornato Ingeborg Bachmann. Tanti sanno quale è la casa. Anche io lo so. Ma non voglio dirlo.
Gigi Corsini
Fåre, 27 ottobre 2023
Tutti i versi riportati in italiano sono tratti da: Ingeborg Bachmann, “Non conosco mondo migliore”, traduzione di Silvia Bortoli, Guanda, 2004, ad eccezione di “Lady Lazarus”, di Sylvia Plath, da “Lady Lazarus e altre poesie”, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori, 1976.