“Notti Attiche”: questo il titolo che Arufabetto ha scelto per i contributi di un intellettuale che stima in modo particolare: Fabrizio Grillenzoni. Classe 1945, laureatosi in storia moderna con una tesi su Gramsci e i consigli di fabbrica, Fabrizio Grillenzoni è stato uno degli animatori del 68 romano.

Nel frattempo, munito della iconica Lettera 22, inizia la sua attività di traduttore per Einaudi, Il Saggiatore, Laterza, Editori Riuniti. A fine anni settanta si trasferisce a Bruxelles, dove svolge l’attività di traduttore in seno alle istituzioni europee, per poi passare al ruolo di funzionario delle stesse istituzioni, fino ad approdare alla Rappresentanza della Commissione europea a Roma di cui diventa direttore facente funzioni.

Stabilitosi definitivamente in Italia nel 2004, riprende il lavoro di traduzione, con all’attivo oltre venti titoli, per Bollati Boringhieri. Sua, Arufabetto ci tiene a ricordarlo, la voce italiana di Serge Latouche. Nel 2022 Grillenzoni pubblica con Ali&No Editrice “Il gran finale” romanzo scritto a quattro mani con il figlio Nicola, storia immaginaria sulla celebrazione della Comune di Parigi. Arufabetto deve all’attività di traduttore di Grillenzoni la scoperta di uno dei suoi libri feticcio, “Anni Settanta. La musica, le idee, i miti”, di Howard Sounes. Proprio in alcune sue riflessioni sul tradurre (https://rivistatradurre.it/il-traduttore-universale/) Grillenzoni rammenta come sia stato necessario, per la verifica delle battute dei film citati, riguardare molti film. Non è dunque un caso che la collaborazione di Grillenzoni parta da questo film, forse per una verifica dello Zeitgeist.

Geniale a dir poco il Civil war di Alex Garland. Il messaggio è chiaro e forte: l’America è impazzita. Impazzita e assetata di sangue. Le domande vengono spontanee. Cosa ha fatto il Presidente degli Stati Uniti, a parte sopprimere l’FBI e bombardare degli insorti, per provocare la guerra civile? Come mai stati tanto diversi come California e Texas si sono coalizzati? Cosa vogliono gli insorti che hanno ridotto a due le stelle sulla bandiera? Cosa vuole, a parte ammazzare gli stranieri, lo splendido Jessie Plemons con i suoi occhiali rossi e la sua conoscenza della geografia americana? Basta che qualcuno ti abbia snobbato al liceo per appenderlo sanguinante? Chi sono il cecchino e il contro-cecchino? Perché l’unica soluzione è ammazzare il presidente? Beh, le risposte non ci sono. L’unica è armarsi di vecchie Leica o di un teleobiettivo più sofisticato e fissare momenti, freeze, senza farsi domande. E procedere per strade disastrate per cogliere le ultime parole del presidente. La razionalità del vecchio Sammy non ha più senso. La voglia di scoop di Joel sembra cosa d‘altri tempi. Restano le donne fotografe. Lee, la grande Kirsten Dunst, aveva sperato che aver documentato orrori in tutto il mondo sarebbe servito a qualcosa. E invece no, stavolta altri orrori, ma intrisi di follia, pura follia. Jessie trascinata dall’emulazione e all’adrenalina: “Non ho mai avuto tanta paura e non mi sono mai sentita tanto viva”. Unica possibilità uno sguardo senza ambizioni di razionalità su una realtà che di razionalità non ne ha. E se ne fanno le spese. Nessuna distopia, sguardo attonito e follia. Neppure questioni etniche o di genere, sembra tutto una questione di bianchi. Salvo che, incongruo nell’incongruo, a giustiziare il presidente è una donna, e una donna nera. E lo scoop si riduce all’ultima frase del presidente: “Digli che non mi uccidano”. Joel dice che tutto sommato può andare, con l’aria che tira è il massimo. Il tutto con ottima colonna sonora.

Garland è un geniale perduto. Come perduto è chi sta ad aspettare le elezioni presidenziali tra un deficiente e un delinquente. Attonimento. Chi era lo sciamano di Capitol Hill? Impossibile rispondere. Rimangono le armi, la sete de sangue. Esagerato forse ma raccapricciante, se si pensa alla maggiore potenza mondiale. Dal postmoderno al postrazionale. Un campanello d’allarme.