Arufabetto guarda il cielo invernale, che di giorno in giorno si fa sempre più scuro. Questo non fa altro che ricordargli le temperature a cui devono essere mantenute certe opere d’arte nei musei: hanno una loro propria stagione. Come si chiama quella stagione in cui l’arte continua a vivere a dispetto di tutto? Arufabetto lo chiede a Sarah Coviello, giovane storica dell’arte, brillante creatura del Warburg Institute, veneziana.

[a cura di Gigi Corsini & Daniel Abbruzzese]

I nomi si indossano. Lei come porta il suo? È la sua naturale cornice? Avrebbe voluto chiamarsi in un altro modo o ha dovuto farci pace? Qual è il rapporto con il nome che porta?

Il mio nome è ‘Sarah con l’acca’ – detta così è proprio come spesso ho dovuto presentarmi, fin dai primi giorni di scuola, e nonostante tutto, ahimè, quell’acca si è spesso persa per strada quando messa per iscritto – dai nomi scritti coi pennarelli sui bicchieri di plastica ai compleanni, ai messaggi di auguri, alle mail istituzionali. È stato un peso che mi sono levata quando mi son trasferita in un paese anglofono, dove ‘Sarah’ era l’unica forma del nome che la gente conoscesse. In automatico, sono diventata ‘Seərə’, che per qualche motivo, mi piace ancora di più. Alla luce di ciò, se dovessi immaginare il mio nome come un indumento da indossare, probabilmente sarebbe un giubbino double-face, di quelli che puoi scegliere quale verso indossare, a seconda della stagione o del colore che meglio si abbina. Ironicamente, qui in Irlanda, sono anche diventata ‘Zara’, come la catena di abbigliamento.

Photo by (c) Simone Sardelli

Qual era l’opera d’arte di cui lei da bambina non poteva fare a meno?

Questa domanda è difficilissima – direi un’opera che era d’arte più che altro ai miei occhi. Una piccola scultura in marmo bianco di un gatto seduto, che in casa fungeva da fermaporta. Non ricordo se era uno degli esperimenti del breve periodo artistico di mia madre, o se era un oggetto che era stato comprato. Mi ricordava il mio di gatto bianco, che, forse, all’epoca, era per me davvero l’opera d’arte di cui non potevo fare a meno.

Mi piacevano molto gli impressionisti, risultato di una serie di importanti mostre “blockbuster” che negli ultimi anni ’90 hanno portato in Veneto i più grandi capolavori di quella scuola da collezioni di tutto il mondo. Più tardi, all’università, scoprii quanto queste iniziative erano lontane da quello che stavo imparando dovrebbe essere il ruolo delle mostre per la storia dell’arte – o forse in realtà no. Alla fine, abbiamo pur sempre avuto il privilegio di vedere dal vero, uno accanto all’altro, delle opere incredibili.

Photo by (c) Simone Sardelli

Lei è addottorata al Warburg. Il nome già ci mette in soggezione, pensando alle menti brillanti che lì hanno svolto la loro ricerca. Cosa significa quell’istituzione?

Il Warburg, con la sua biblioteca incomparabile, ed i personaggi che vi hanno transitato, è, secondo me, la rappresentazione nel piano fisico dell’idea di ricerca, quella più pura e dilettevole, dove tutto è possibile. Testi, immagini, simboli, pensieri, tradizioni da tutto il mondo – tutto è elevato a possibile oggetto di studio, e con qualsiasi approccio, senza paura di intraprendere progetti- sondaggio su scala universale, o di focalizzarsi su una singola parola, un libro, un oggetto. L’importante è iniziare dalle fonti primarie, prima di leggere la letteratura e le opinioni. Macrocosmi e microcosmi sono tutti esplorabili tra gli scaffali, dove bisogna solo abbandonarsi alla serendipità del viaggio che si intraprende, soggetti alla legge del “buon vicino”, grazie alla quale si trova quello che nemmeno si sapeva si stesse cercando. Il tutto, è immerso in un involucro pressoché rimasto uguale, anche dopo la recente ristrutturazione. E’una macchina del tempo, che ti porta indietro negli anni ’60, dove ancora senti la presenza di Warburg, di Saxl, di Gombrich o Baxandall.

Il libro di estetica che bisogna aver letto assolutamente.

Non so se si possa definire un libro di estetica in senso tradizionale, anche se lo lessi la prima volta come testo per l’esame di estetica: l’Iperione di Friedrich Hölderlin. Un testo che parla di stoica speranza nell’ideale di bellezza: “La prima figlia della bellezza umana, della bellezza divina è l’arte. In essa l’uomo divino ringiovanisce e si rinnova. Egli vuole sentire sé stesso e perciò pone di fronte a sé la bellezza. Così l’uomo si diede i suoi dei, ché nel principio l’uomo e i suoi dei erano una sola cosa, poiché, ignota a sé stessa, esisteva la bellezza eterna.” 

Photo by (c) Simone Sardelli

Un altro testo che mi piacerebbe vedere ri-scoperto come testo di estetica, al di fuori delle cerchie degli storiografi dell’arte, è la serie di saggi scritti da Bernard Berenson negli anni ’90 dell’800, raccolte successivamente in una pubblicazione unica nota come “I Pittori del Rinascimento”. Sono testi che parlano del modo di esperire le opere d’arte e del potere che hanno per ‘migliorare la vita’, un infuso delle prime teorie psicologiche nei discorsi artistici, e tra l’altro dei testi che facevano parte di una cultura condivisa di quei viaggiatori ed esteti stranieri, soprattutto inglesi e tedeschi, che decisero di visitare l’Italia, molti stabilendosi sulle colline attorno a Firenze, o nei vecchi palazzi di Venezia. Agli inizi del ‘900, un giovane Roberto Longhi si era proposto per farne la traduzione in italiano, impresa purtroppo mai realizzata, anzi fu fonte della prima diatriba tra i due, risolta solo più tardi dal vecchio ‘Berenson che tanto nomini’. L’impresa fu poi realizzata da Emilio Cecchi, ed altri testi di estetica del Berenson furono invece tradotti da Mario Praz, altra figura dimenticata, che aspetta di essere rivalutata: conisglierei a tutti di leggere ‘La filosofia dell’arredamento’.

Mario Praz (Fonte: Wikipedia)

Un libro che le piace ma che si vergogna di avere nella sua libreria.

Alcuni libri di Donna Leon della serie de Il Commissario Brunetti. Non me ne vergogno a dire il vero, ma rispetto agli altri libri che ho – noiosamente inerenti al mondo dell’arte, qualcuno potrebbe dire – sono un po’ più da signorotta inglese o tedesca sulla sessantina innamorata dell’Italia. In realtà li ho presi perché ambientati a Venezia, e qualsiasi cosa che riguardi quella città, mi da sempre un qualcosa in più. E poi, son stati spesso una scusa per leggere qualcosa in lingua, ne ho uno in tedesco, la lingua originale, ed uno in spagnolo. L’autrice, infatti, non ha mai voluto che i suoi romanzi uscissero in italiano. Si dice sia stata una scelta dettata dal non voler essere riconosciuta per le calli di Venezia, né giudicata dai suoi cittadini per aver dipinto la città come lo sfondo di crimini di qualsiasi genere. L’adattamento per la TV mi era piaciuto tantissimo – guardavo le puntate coi miei genitori e ci divertivamo a riconoscere i luoghi dove le scene erano girate. L’appartamento del commissario è stato ambientato a fianco al palazzo con la più grande e bella terrazza sul Canal Grande – Palazzo Barbarigo della Terrazza, oggi la sede del Centro Tedesco di Studi Veneziani, ed un tempo sede dello studio di Tiziano, artista incredibile.

Photo by: (c) DanielAbbruzzese

Arufabetto è pettegolo e indagatore. Sa che lei recentemente è andata negli Stati Uniti. Che faceva là?

Ho avuto la fortuna di vincere una borsa per consultare dei fondi d’archivio conservati al Getty Museum, a Los Angeles, in California. Al momento sto continuando la mia ricerca iniziata con il dottorato, riscoprendo e ricostruendo collezioni d’arte una volta appartenuti a storici dell’arte che vissero nel secolo scorso. In particolare, sono andata a vedere le carte d’archivio di John Pope-Hennessy, grandissimo studioso di arte del Quattrocento toscano, e conosciuto al tempo dei suoi studi a Oxford come il ‘Botticelli’.

Figlio di Una Pope-Hennessy, scrittrice, biografa e traduttrice di successo, nonché collezionista di antiche giade Cinesi, lo storico dell’arte lavorò come responsabile del dipartimento di scultura del V&A e fu direttore del British Museum. Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli ’80 si trasferì negli Stati Uniti, lavorando per il Metropolitan Museum di New York. Una volta in pensione, decise di trasferirsi a Firenze con il compagno Michael Mallon e con la sua collezione di arte. Gli bastò vendere due quadri comprati per pochissimo a dei musei in America per assicurarsi una vita agiata nei pressi di Palazzo Canigiani, in via de’ Bardi. La collezione fu poi venduta poco dopo la sua morte – il catalogo d’asta riproduce alcune fotografie dell’allestimento nella casa Fiorentina.

Esiste un rapporto tra restauro e chirurgia estetica?

Dipende dalle scuole di pensiero. Nel Regno unito si privilegia un restauro che non impatti visivamente, un approccio spesso chiamato ‘estetico’. Il problema è che in questi casi, lo spettatore, a meno che non sia informato per altre vie, non è reso partecipe della storia dell’oggetto, come se nulla gli fosse mai successo. E nel frattempo Cesare Brandi, la sua teoria del restauro e la tecnica del tratteggio si rivoltano nella tomba. Questioni di etica contro estetica.

I Tetrarchi
Photo by: (c) DanielAbbruzzese

Chi è proprietario del capolavoro?

Chiunque lo guardi.

Lei è veneziana. Quella da cui proviene è una città bussola dove le direzioni sanno convivere, lanciandosi verso le lontananze. Sud e Nord sono uniti, Est e Ovest, Ovest e Sud eccetera eccetera. L’ago della bussola gira come se fosse il tempo, è quella la vostra follia. Lei che direzione sceglie in questo momento?

Per ora direi il Nord.

Un artista geniale che sbagliava sui colori.

Tintoretto. Una palette troppo scura, soprattutto dopo l’esperienza di Veronese.

Jacopo Tintoretto
Jacopo Tintoretto, Il Paradiso, olio su tela. Venezia, Palazzo Ducale. (Fonte: Wikipedia; https://commons.wikimedia.org/wiki/Template:PD-US-expired)

Se potesse essere intervistata da qualcuno che non c’è più, persona nota o meno, chi sceglierebbe?

Mario Praz. Credo avremmo molti interessi in comune.

Roma antica o la Grecia antica?

Grecia antica, anzi, Bisanzio.

Le opere che osserviamo ci osservano, ne siamo coscienti quando pensiamo a quanti sguardi, ora scomparsi, si sono concentrati su di esse. Questo ci porta ad una riflessione. Ovvero che appena sarà possibile faremo un museo su un altro pianeta. Quali opere manderemo lassù, lontano da noi?

Ci vedrei bene qualche opera contemporanea minimalista – secondo me Daniel Buren non vede l’ora di poter creare qualcosa su Saturno ad esempio. Me li immagino un Richard Serra o un Donald Judd su un qualche pianeta inesplorato… un risultato decisamente spaziale.