Un arazzo storico che parte dalle Quattro Giornate di Napoli e, riempiendosi di personaggi e dettagli, racconta la parabola di una storia di riscatto che è simbolica di tutta la seconda metà del Novecento: questo è La Grande Sete, opera prima di Erica Cassano e romanzo finalista al Premio Letterario Clara Sereni. L’autrice ne ha raccontato la genesi ad Arufabetto.

[a cura di Gigi Corsini]

Erica Cassano, foto dal profilo Instagram dell’autrice

1. «Mio padre però, in divisa da ferroviere, si aggirava tutto contento, ci disse di avvicinarci alla finestra del soggiorno. Sporgendosi un po’, si riusciva a vedere un pezzo di mare. Mia madre e Felicita lo raggiunsero. Prima di fare lo stesso, mi fermai al centro della stanza. Guardai le loro sagome incorniciate dagli stipiti, scure contro il cielo». Siamo nel finale de La Grande Sete, il suo romanzo d’esordio, adesso nella decina finalista del Premio Sereni. Osservando questa silhouette, vorremmo che di nuovo i personaggi si voltassero, sapere cosa accadrà loro in seguito. Come sono arrivati a lei questi personaggi? Singolarmente, in gruppo, qualcuno che è arrivato alla fine?

I personaggi principali de La Grande Sete, Anna e la sua famiglia, sono nati insieme all’idea stessa del romanzo. Infatti la trama si basa in parte sulla loro storia vera. Altri personaggi, come i condomini e le persone che Anna incontra alla base di Bagnoli sono arrivati più tardi, alcuni nati dalle esigenze dettate dalla trama, altri spontaneamente, come se avessero loro stessi il desiderio di essere sulla pagina. Approfondimento e sviluppo dei personaggi hanno poi richiesto un tempo molto lungo e grande lavoro: nessuno di essi è una figura rigida, immobile, tutti mutano e compiono un arco evolutivo dalla prima apparizione nel romanzo all’ultima. Posso dire quindi che anche i personaggi che erano presenti sin dall’inizio della narrazione hanno impiegato tempo a crescere, sono cambiati, e alcuni dei loro tratti sono emersi solo alla fine del lavoro di stesura del romanzo.

 

2. Perché ha scelto di narrare in prima persona?

Ho scelto la prima persona per due ragioni. Da un lato la prima è la persona narrativa a me più congeniale. Da questo punto di vista è stata una scelta molto naturale. In secondo luogo, questo romanzo aveva anche l’obiettivo di consentire alla voce della Anna “vera”, che per prima ha scritto la propria storia, di risuonare anche in queste pagine. La prima persona quindi era essenziale per ottenere questo risultato, ma anche per consentire a me di fondere il mio racconto con il suo.

 

3. C’è una matrice molto forte di questa vicenda, la Storia della scatola, che l’ha accompagnata per un lungo tratto della sua esistenza, che non è solo il crescere della scrittura, ma una specie di continuità femminile…

Sì, è vero. Questa storia è arrivata a me come una specie di eredità e io l’ho sempre trattata con cura, come si fa con le cose preziose. È una storia che è cresciuta insieme a me, visto che dai 13 anni, quando l’ho letta per la prima volta, a oggi mi ha sempre accompagnata. Ogni volta che prendevo il computer per scrivere un racconto, più o meno breve, mi accorgevo che emergevano sempre pezzi di questa storia, grazie alla quale ho capito che la scrittura era la mia più grande passione e aspirazione.

Il racconto da mia nonna è passato a sua figlia, mia madre, e ora a me, ma il fatto che sia una linea femminile stavolta è solo un caso. Ho la fortuna di avere racconti tramandati anche dal padre di mia madre, e per me hanno un valore altrettanto importante. Più che la continuità femminile conta dunque la continuità familiare.

Photo: Jacopo Casciani, IG: @_oblomovista_

4. Ad un certo punto la protagonista, Anna, si sorprende a detestare Napoli, forse a causa di sua madre. All’altro polo c’è Genova, altra città con uno status particolare. Qual è il suo rapporto con Genova, letterario o meno?

Anna ama e odia Napoli al contempo. Perché è una città meravigliosa ma complicata, che richiede un grande sforzo. La madre è del tutto avversa ai suoi vicoli e alle sue strade, si rifiuta di viverla, mentre Anna sin da subito si butta a cercare in Napoli qualcosa della sua vecchia città. Trova tante analogie tra Genova e Napoli, ma impiega del tempo a comprendere che le ama entrambe, anche se per ragioni diverse.

Fino a pochi anni fa non avevo alcun legame con Genova. La Anna “vera” aveva vissuto lì per un periodo della sua vita, pur essendo nata a Napoli, e la ricordava spesso. Eppure io e la mia famiglia non l’avevamo mai vissuta, avevamo fatto tappa in città per vedere l’Acquario e nulla più. Poi, tre anni fa, per caso, il mio fidanzato ha ottenuto la cattedra di ruolo proprio in questa città e, vivendo io allora a Torino, ho iniziato a frequentarla spesso e a scoprirla. Da poco mi sono trasferita a vivere proprio a Genova, per amore ma anche perché sento che questo antico legame non si era del tutto esaurito e che aveva ancora tanto da darmi.

 

5. Adesso che ti ho inventata, ti conosco. Lei ha raccontato così la sensazione di quando ha finito di scrivere il romanzo. Forse è vero, per conoscere una persona bisogna in parte inventarla. Ma quello dell’invenzione può essere anche un procedimento un po’ doloroso, non crede?

Nel mio caso inventare Anna è stato esattamente come creare un personaggio di finzione come un altro. Il processo non è stato doloroso, semmai faticoso, questo sì. Il personaggio doveva risultare credibile, non banale, non volevo che lei fosse infarcita di inutili eroismi. Solo al termine del lavoro, quando ormai il processo era compiuto, mi sono resa conto di aver regalato alla Anna “vera” una nuova vita, facendole rivivere nella finzione quel periodo della sua vita che amava ricordare. Da qui nasce questa frase, ed è legata anche al fatto che ho conosciuto mia nonna Anna solo per pochi anni della mia vita, mentre questo personaggio resterà per sempre.

Photo: Jacopo Casciani, IG: @_oblomovista_

6. Ci dica una cosa che può accadere solo a Maratea.

Risponderò a questa domanda unendo Maratea, che è il posto in cui sono nata, e Tortora Marina, che è il posto in cui ho vissuto fino ai ventidue anni. Da tre anni, la comunicazione tra le due cittadine costiere, è interrotta a causa di una frana. La strada tutta curve che si aggrappa al fianco della montagna, ormai è percorribile per i soli mesi estivi e per una finestra di ore limitata. Questo rappresenta un disagio molto grave per coloro che devono spostarsi da un posto all’altro per ragioni lavorative o di studio. Non è certo un vanto, ma credo sia una cosa che al momento avviene solo lì, di impiegare un’ora per percorrere un tragitto che richiederebbe invece venti minuti. Succede solo lì, inoltre, che le esigenze dei cittadini restino del tutto inascoltate.

 

7. Un tema che ha scritto in età scolare e che ricorda ancora.

Amavo moltissimo scrivere temi, a scuola. È così che ho capito che la mia era un’attitudine e anche una passione. In particolare ricordo un pomeriggio del primo quadrimestre della quinta elementare. Era un periodo strano, la maestra era assente e al suo posto c’era una supplente di nome Maria, un suo surrogato che tutti mal sopportavano. Fu lei ad assegnare il compito di immaginare un prosieguo per un brano di Susanna Tamaro, tratto da “Cuore di ciccia”, che era presente sul nostro libro di testo. Ricordo la gioia che provai quel pomeriggio, seduta al tavolo della cucina, a unire le mie parole a quelle di una scrittrice che già ammiravo, a immaginare un finale per quel pezzo di storia. Scrissi tre pagine fitte, realizzai anche un disegno al fondo della pagina e il giorno dopo con fierezza andai a consegnarlo alla maestra Maria. Lei, con mia grande sorpresa, non lodò il lavoro svolto, anzi, tracciò sulle pagine un segno rosso, obliquo, cancellando tutte le mie parole. Disse che lei aveva richiesto di scrivere un finale, una o due righe, un riassunto, non un racconto intero. Inutile dirlo, iniziai a piangere. Perché non capivo cosa ci fosse di sbagliato nell’aver svolto un compito in più, perché sapevo che la maestra vera invece avrebbe apprezzato moltissimo. Perché aveva tolto dignità al mio lavoro senza neppure leggerlo. Ogni tanto ci penso, mi dico che in quel pianto così spontaneo c’era già la mia voglia di affermarmi come autrice, di vedere le mie parole stampate su carta, senza una penna rossa a eliminarle.

 

8. Cosa dire ad una persona più giovane di lei che sente arrivare la scrittura nella sua vita? Ha un consiglio da dare?

Il mio consiglio è: non avere paura di star perdendo tempo provando a scrivere un racconto, un romanzo, una poesia. La realizzazione di un obiettivo arriva grazie al talento, al lavoro, ma soprattutto grazie al tempo che ci si dedica. Era la mia paura più grande, quella di aver sprecato molto tempo a scrivere qualcosa che nessuno avrebbe letto. Ma se non avessi impiegato quel tempo, oggi di sicuro nessuno mi starebbe leggendo. Quindi vale sempre la pena provarci, impiegare tempo a scrivere, riscrivere, migliorarsi. È l’unico modo per provare sul serio ad avvicinarsi a un risultato.

 

9. Visto che La Grande Sete è nella decina finalista del Premio Sereni, le chiedo se c’è un libro di Clara Sereni che le è particolarmente caro o che si sentirebbe di consigliare.

Devo ammetterlo: conoscevo pochissimo la figura di Clara Sereni, non ho mai letto i suoi libri. Grazie alla candidatura a questo premio, però, ho avuto modo di approfondire la sua figura di scrittrice e sono stata felice di averlo fatto. Quindi il mio consiglio è, a chi non la conosce, di fare ricerche su di lei e di scoprire quale scrittrice impegnata, sensibile e raffinata sia stata e, perché no, iniziare ora a leggerla.

 

10. Se potesse essere intervistata da qualcuno che non è più qui, una persona famosa o meno, ma importante per lei, oltre sua nonna Anna, chi potrebbe essere?

C’è una persona importante per me che da pochissimi giorni non è più qui. Si chiama Ginevra e il sei di ottobre avrebbe compiuto ventidue anni. È una mia carissima amica conosciuta tra i banchi della Scuola Holden di Torino. Le nostre vite si sono incrociate per poco tempo, ma il fuoco che lei portava dentro era raro, un fuoco che nemmeno la malattia durissima che l’ha portata via aveva saputo estinguere. Ora se penso a una persona da cui mi piacerebbe essere raccontata, penso a lei. Condividevamo lo stesso sogno, quello di scrivere. E lei, nonostante le sofferenze e la giovanissima età ha scritto un romanzo intero. Mi ha ripetuto spesso, dopo l’uscita del mio libro, che era fiera di me, fiera di conoscermi, che non vedeva l’ora di essere al mio posto. Io, ingenuamente, ero seriamente convinta che ci sarebbe riuscita. Perché quel fuoco, appunto, offuscava la malattia al punto che ero certa che l’avrebbe sconfitta. In un certo senso è stato così, ha messo tutti i suoi sogni nello spazio di vita che ha avuto a disposizione. Se potessi scegliere quindi sarebbe un privilegio conversare ancora una volta con lei.

Grazie, Erica.