“Il paesaggio danese, piatto e dolcemente ondulato, stava sereno e immobile, meravigliosamente sveglio nell’ora che precede l’alba. Non c’erano nuvole nel cielo pallido, né ombre lungo i campi, le colline e le foreste immerse nei colori perlacei dell’aurora. La nebbia si sollevava dalle valli e dagli avvallamenti, l’aria era fresca, l’erba e il fogliame gocciolavano di rugiada. Non osservata dagli occhi dell’uomo e indisturbata dalle sue attività, la terra respirava una vita fuori dal tempo che sfuggiva al linguaggio umano.

Eppure gli esseri umani abitavano questa terra da migliaia di anni, erano stati plasmati dalle sue zolle e dalle sue intemperie e l’avevano a loro volta plasmata con i loro pensieri, tanto che ora nessuno poteva dire dove finisse l’essenza dell’uno e iniziasse quella dell’altro. Lo stretto nastro grigio di una strada che si snodava attraverso la pianura e su e giù per le colline era la realizzazione consolidata della speranza umana che un posto fosse migliore di un altro“.

[da: Isak Dinesen (Karen Blixen, Campo del dolore, trad. tedesca: Tania Blixen, Leidacker, in Wintergeschichten].

 

Baroness Karen Blixen-Finecke at Kastrup Airport CPH, Copenhagen 1957-11-02. (Source: SAS Airlines – from Wikipedia)

 

Pochi altri autori hanno avuto un rapporto così intimo con la loro terra di nascita come Karen Blixen. Un rapporto talmente intimo per cui, nei suoi scritti, la Danimarca non appare spesso, come se fosse un luogo in cui l’autrice, o i personaggi da lei creati, si trovano casualmente a vivere le loro vicende. Eppure, in non pochi racconti della Blixen, il paesaggio ha dei tratti inconfondibili: i colori vivaci della campagna coltivata, quelli intensi delle foreste e della brughiera, quelli cupi dei ghiacci che un tempo vagavano sulla superficie del Kattegat, quelli profondi e impenetrabili dell’Oceano.

Alcuni di questi colori si mostrano in tutta la loro evidenza quando si attraversa l’unica frontiera terrestre della Danimarca, quella meridionale: è così grande la differenza con la luce e le tonalità del paesaggio immediatamente più a sud, che si potrebbe credere di essere entrati in un altro mondo. Tornano a mente le suggestioni letterarie, da Shakespeare, ad Andersen, fino a Hamsun: è dunque questo, ci si dice, lo sconfinato Nord, dove i raggi del sole cadono in maniera talmente obliqua da far sembrare realistica ogni allucinazione. E più ci si spinge verso settentrione, più i colori sembrano acquisire un volume e trasfigurare verso un’alterità assoluta.

Lo sappiamo da Karen Blixen, il paesaggio danese può arrivare ad estendersi fino a regioni che un tempo appartennero al Regno di Danimarca: lo Schleswig, Lauenburg, e oltre fino alle le isole Frisone, e alla Norvegia, su fino all’ultimo villaggio prima di Capo Nord. E arriva infine a toccare quella linea che divide i popoli felici da quelli afflitti dall’ineluttabilità dell’inverno. E dunque, anche le colline e le coste dell’Africa possono assomigliare in qualche modo alla Danimarca.

Ogni luogo, alla fine, non è che la scena in cui a ognuno di noi è dato di interpretare nel modo migliore il suo ruolo su questa terra, come ipotizza in Diluvio a Norderney il cardinale von Schestedt; o meglio, colui che è diventato il cardinale solo in seguito ad un furto di identità. Perché il mondo di cui Karen Blixen racconta è talmente fiabesco, che in esso si lasciano pronunciare facilmente verità terribili: l’essenza di ogni singolo sono le vicende che egli vive – e sul vuoto che è la sua identità prevalgono i luoghi che le sue vicende attraversano.

Nella stessa misura in cui lo Jütland e l’Arcipelago Danese sono anticipazione di luoghi altri, Karen Blixen scrive e pubblica contemporaneamente in inglese e in danese, con due nomi diversi. Isak Dinesen e Tania Blixen sembrano comunque muoversi in un paesaggio linguistico che ha alle spalle un precedente fondamentale, le Memorie della Torre Blu (in danese Jammers Minde) di Leonora Christina Ulfeldt, un diario che si dipana senza soluzione di continuità fra danese, francese, tedesco e plattdüütsch – e descrive la ventennale quotidianità di un carcere una delle esplorazioni più avvincenti della storia della letteratura moderna.

I danesi si raccontano volentieri come un popolo di viaggiatori, inclini al contatto con le altre culture e all’apprendimento delle lingue straniere. E se è pur vero che il loro atteggiamento verso i visitatori assume spesso un carattere festoso, come quello di chi trova inaspettatamente un’altra presenza umana in mezzo al mare, l’accento marcato e inconfondibile con cui parlano le altre lingue denuncia un fortissimo legame con il loro luogo di origine. Che resta tuttavia un luogo marittimo, anche in mezzo alle colline o alle campagne.

Il mio primo viaggio in Danimarca fu poco più di dieci anni fa: semiconvinto dai racconti dei conoscenti e dalle scialbe immagini trovate su internet (ebbi allora una prima intuizione di quanto sciatta sia la rappresentazione della realtà di cui ci nutriamo tutti i giorni), partii per una località sulla costa occidentale del Midtjylland, una piccola colonia per turisti tedeschi, che mi ricordava la Riviera Adriatica, sgombra ovviamente da palazzine e alberghi. Fu la luce mai vista a folgorarmi, insieme alla vastità dell’Oceano, che fino ad allora avevo solo intuito. Dovetti tornare lì poche settimane dopo, stavolta portandomi dietro come guida i Syv fantastiske Fortællinger, le Sette storie gotiche di Karen Blixen.

Da allora, quasi in maniera meccanica, sono tornato regolarmente in quel fazzoletto di terra. Confesso di non essermi mai spinto sulle isole di Fionia e Selandia, limitandomi ad osservare Copenhagen dalla riva svedese dell’Øresund – dovrebbe far parte dello Zeitgeist di oggi, guardare le grandi città a debita distanza. Ma conosco ormai abbastanza bene tutto lo Jütland da averne esorcizzato il fascino dell’esotico. Ciò nonostante, tutte le sfumature fiabesche delle spiagge, delle dune, delle colline e dei boschi mi sono diventati via via sempre più evidenti, come quando si rilegge un libro. Nella mia percezione, questo paesaggio ha iniziato a vivere di vita propria.

Questa grande lingua di sabbia e detriti glaciali sembra concretizzarsi dall’acqua: al di là dell’increspatura delle dune, le sue dolci colline sono come onde diventate solide, il loro verde e il giallo pallido complementari al blu, allo smeraldo e al biancastro dell’Oceano. Negli avvallamenti, fin quasi in riva al mare, riaffiorano laghi e fonti, a ricordare la stretta parentela di quei luoghi con l’acqua. E anche le case, le fattorie, le chiese imbiancate sorgono dalle linee curve dei campi come navi che ne solcano le creste, il Dannebrog ben visibile nelle giornate più ventose.

E come quando, davanti a una distesa marittima, lo sguardo finisce sempre per impigliarsi all’orizzonte su qualche Fata Morgana, così, nello Jütland, gli occhi si fermano spesso su dei fantasmi, gli stessi che popolano i racconti di Karen Blixen. Ad un certo punto sono loro che diventano i veri protagonisti di questi luoghi: loro è lo spazio in cui la fusione fra esseri umani e paesaggio giunge a compimento.

È un piccolo fazzoletto di terra, fra il Mare del Nord e il Limfjorden, quello a cui, fin dal mio primo viaggio, ho rivolto le mie attenzioni – ed è difficile spiegare a qualcuno che non conosca l’imprinting del primo viaggio in Danimarca il carattere affascinante di tornare in maniera rituale sempre negli stessi luoghi.

Geograficamente, questa è l’ultima parte di terra ferma che fa ancora parte dell’Europa continentale. Da qui, un paio di millenni fa passava un confine, che gli archeologi considerano fondamentale, che separava gli Juti, stanziatisi a nord, dalle altre popolazioni. A testimoniarne rimane una muraglia di terra, ancora ben visibile, che sussiste su centinaia di sepolture a tumulo. In uno di questi sepolcri è stato ritrovato il corredo di una ragazza, che proveniva probabilmente dal sud della Germania. Di ciò che ci precede non sappiamo niente, ma le fiabe e i loro sviluppi moderni nella letteratura ci possono dare abbastanza segni utili per ricostruire un percorso, se non altro molto più avvincente di quello che la reinterpretazione positivista della storia ci trasmetta.

La tradizione danese ha chiamato queste praterie punteggiate di tumuli, disposti a riprodurre le costellazioni, il Regno dei Morti. Esso rimane un luogo in cui è bene non accedere – tanto che, anche in mezzo ai campi coltivati da secoli, questi cumuli di terra erbosa sono rimasti intatti. Come creste delle onde, o apparizioni inaspettate, sono diventati segni particolarmente riconoscibili in un paesaggio fatto di simboli: il repentino cambiamento della luce, il subentrare del silenzio ai boati dell’Oceano e del vento, l’impercettibile spostamento della sabbia sulle dune, o di una pietra rispetto all’altra, sono gli elementi fondamentali di questo labirinto di segni, in cui tutto sembra cambiare di senso da un momento all’altro, pur essendo sempre rimasto uguale da sempre.

È forse per questo che i colori della Danimarca assomigliano così tanto a quelli dell’infanzia. O a quelli delle cose che sopravvivono di ogni individuo, al di là del racconto che vorremmo lasciare di noi stessi. Karen Blixen, nelle ultime immagini che la ritraggono davanti alla sua casa a Rungsted, gli occhi annegati nel viso scavato e nel bistro pesante, mostra uno sguardo da sfinge, che non interroga più, ma suggerisce: le uniche cose che rimangono hanno i colori del mare e delle dune.

(di Daniel Abbruzzese, originariamente pubblicato su https://finisterraeberlin.wordpress.com/)